Essere o Fare: tra lavoro e identità
Una linea sottile
C'è una sottile, ma grande differenza nel dire "faccio il fotografo" o "sono un fotografo". Nel primo caso mi attribuisco delle abilità, che sfrutto a mio piacimento, quando il mondo esterno me ne fa domanda. Nel secondo caso mi indentifico con una funzione, oltre la quale non so immaginarmi a livello lavorativo.
I pericoli dell'essere
Nel momento in cui mi identifico con una figura, perdo una parte delle mie peculiarità che non rientrano in quella professione. Sono una fotografa, ma sono abile a disegnare, mi piace fare video, progettare, impaginare, adoro scrivere e queste capacità non rientrano strettamente nel ruolo in cui mi incasello.
La pericolosità dell'identificazione sta nell'attribuzione interna di limiti entro la quale "si è" o "non si è". Da qui derivano le crisi identitarie, per esempio, davanti a momenti di disoccupazione. Infatti quando il mondo non riconosce il ruolo con cui ci siamo identificati fino a quel momento, ci sentiamo persi e spaesati, quasi la nostra esistenza diminuisca di senso o non l'abbia affatto.
I limiti del fare
Non sono ciò che faccio, faccio come sono
Sembra a questo punto chiaro che "nel fare" non possiamo essere biechi esecutori. Qualcosa di noi, per fortuna, trasparirà sempre, l'importante è rendersi conto di ciò che ci appartiene realmente e di ciò che è classificazione esterna e con noi non centra nulla.
Se dovessi per necessità fare la cassiera, lavoro dignitoso esattamente come tutti gli altri, non smetterei di fotografare, perché la necessità di fare fotografie non sarebbe correlata alla mia carriera, ma sarebbe una delle manifestazioni delle mie personali inclinazioni.
Dunque, una volta raggiunta la consapevolezza di ciò che siamo (percorso lungo e periglioso, ma sicuramente necessario) possiamo fare tutto ciò che dobbiamo e vogliamo, con massima coscienza e libertà.
La foto sopra riportata appartiene al progetto Bound by Gravity , realizzato da me, nell'ottobre del 2020